martedì 28 giugno 2016

Giugno 2016. Terza settimana

Brexit è quello che ti meriti, quando dimentichi il tuo ruolo nello schema generale dell’universo.
La classe dirigente inglese s’è tradizionalmente fatta forte di un sistema elettorale costruito a propria immagine e somiglianza: l’uninominale secco, che premia i vincitori nei singoli collegi senza tenere in alcun conto le percentuali nazionali.
Per decenni, conservatori e laburisti si sono alternati al governo, mentre i liberali, pur prendendo percentuali non molto inferiori, riuscivano a fare entrare a Westminster una manciata appena di propri rappresentanti.
Oggi tocca all’UKIP: Nigel Farage, tanto per dire, non è mai stato capace di farsi eleggere, neanche quando il suo partito, come alle ultime elezioni, ha preso quasi il 13 per cento (mentre i liberali, con meno dell’otto per cento, hanno otto rappresentanti. Per tacere dello Scottish National Party che ha 56 seggi col 4,7 per cento dei voti).
David Cameron ha (anzi aveva) la maggioranza assoluta in parlamento con appena il 36 per cento dei suffragi, senza che ciò abbia sollevato perplessità alcuna. Il sistema elettorale britannico non ha come scopo primario quello di rappresentare fedelmente la volontà della maggioranza dei cittadini: è solo uno strumento per garantire la governabilità del paese.
Ciò ha reso di straordinaria importanza la capacità dei leader politici di vincere nei collegi in cui non esiste già in partenza una maggioranza chiara. E’ quello che fece David Cameron lo scorso anno: concentrò le sue risorse sui collegi incerti, abbandonando a loro destino le sicure roccaforti laburiste e la Scozia.
Si tratta dello stesso Cameron che invece, di fronte a un voto, quello referendario, in cui la percentuale dei suffragi conta eccome, improvvisamente s’è ritrovato disarmato. Incapace perfino di comprendere una votazione in cui le scelte degli elettori attraversano trasversalmente gli schieramenti politici tradizionali, rendendo di fatto inutile tutta la scienza tecnico-elettorale che è il pane quotidiano dei politici britannici.
Da una parte s’è trattato di un caso palese di cecità dell’élite, incapace di vedere il malcontento popolare dall’alto della propria torre d’avorio londinese; dall’altra, tuttavia, io metterei in conto la disabitudine della classe politica d’oltremanica alle competizioni elettorali in cui vige il sistema proporzionale, la sua fondamentale desuetudine con la democrazia, intesa qui nella sua accezione maggioritaria.
Esperti come sono nelle tecnicalità di collegio, abituati a essere maggioranza in parlamento e minoranza nel paese, i politici britannici si perdono nelle terre sconosciute dell’autentica volontà popolare.
Da qui deriva la loro tradizionale avversione nei confronti del referendum. Nel 1945, alla fine della guerra, si dovette decidere se tornare o meno alla normalità politica. Il governo britannico era oramai in carica da dieci anni e il primo ministro Winston Churchill voleva prolungarne ancora l’artificiale esistenza.
Propose per questo un referendum, ma il leader laburista Clement Attlee gli rispose: “Non posso consentire l’introduzione nel nostro paese di uno strumento così estraneo alle nostre tradizioni come il referendum, che è stato troppo spesso utilizzato dal nazismo e dal fascismo”.
Si riferiva ai quattro referendum con cui Hitler aveva consolidato il proprio potere in Germania, ma più in generale a quella che si usa definire la dittatura della maggioranza.
Una frase che andrebbe incisa sulla tomba dove riposa la carriera politica di David Cameron.

martedì 21 giugno 2016

Giugno 2016. Seconda settimana

I quattro inni per l’incoronazione dei re e delle regine di Gran Bretagna furono composti nel 1727, in occasione dell’ascesa al trono di Giorgio II, e sono tuttora in uso.
M’è tornato in mente l’altro giorno, dal barbiere, mentre aspettavo il mio turno leggendo l’editoriale con cui il Sun si dichiarava ufficialmente favorevole all’uscita del Paese dall’Unione Europea. Il Sun, ma certamente già lo sapete, è uno dei più antichi quotidiani popolari d’Europa. Popolare in ogni senso: appena dietro l’editoriale in questione, voltata la pagina, una formosa ragazza in bikini posava come prova provata degli effetti benefici del bacon e delle uova fritte, britannicamente ingurgitati a colazione.
Uno degli argomenti centrali della filippica pro-Brexit del Sun, oltre ovviamente all’immigrazione, è la necessità di sottrarre la Gran Bretagna alle mire colonial-espansionistiche della Germania.
Qualcuno lo spieghi a Giorgio II. Nato e cresciuto in Germania, prima di salire al trono era stato duca di Hannover. A comporre l’inno fu il tedesco George Frideric Handel, che Giorgio II convinse a lasciare l’Italia, dove aveva acquistato fama e onori, per diventare il maestro di camera della corte britannica. E’ sepolto nell’Abbazia di Westminster.
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Da allora, è ovvio, sono trascorsi secoli. Gli inglesi hanno combattuto ben due guerre mondiali contro la Germania, una circostanza che politici ed editorialisti avveduti farebbero bene a tenere a mente.
La prima guerra mondiale (e la seconda, che ne fu un effetto collaterale) fu il frutto avvelenato della competizione imperialista tra potenze europee che avevano raggiunto la loro massima possibile espansione e finirono con lo sbranarsi a vicenda.
I nazionalisti di ieri combattevano per l’egemonia mondiale, sognando di allargare le frontiere dei propri rispettivi paesi; quelli di oggi, come a dare ragione a Marx e alla sua boutade che la storia si ripete come farsa, si battono per rinchiudersi all’interno dei vecchi confini.
Già questo dovrebbe far capire la crisi profonda dei vecchi stati nazionali e quanto sia reazionaria, provinciale e autolesionista la fuga nel passato del sanfedismo antieuropeista.
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La Gran Bretagna, intanto, rischia di finire fuori dall’Unione Europea quasi senza volerlo. David Cameron, l’attuale primo ministro, decise di concedere ai suoi alleati euroscettici il contentino del referendum sull’Europa per evitare d’essere fatto fuori. Era la scorsa legislatura e i sondaggi lo davano in difficoltà, mentre l’UKIP di Nigel Farage falcidiava il tradizionale elettorato conservatore.
La scommessa di Cameron era quella di zittire definitivamente gli euroscettici dando la parola agli elettori, sicuro com’era di vincere a man bassa. Ciò che ha fatto, in realtà, è stato di scoperchiare il vaso di Pandora: dei risentimenti sopiti, delle frustrazioni accumulate in decenni di disprezzo per la classe lavoratrice inglese, della paura per gli stranieri che “rubano” il lavoro.
Così ha finito per trovarsi in una situazione imbarazzante: fare campagna elettorale per la permanenza nell’Unione senza avere né credibilità né argomenti, se non la paura del salto nel buio.
S’è trovato, nei mesi scorsi, a dovere implorare gli altri leader europei perché gli concedessero qualcosa, una riformetta qualsiasi, un riconoscimento qualsivoglia di una sorta di diversità britannica, uno specchietto per le allodole da poter mostrare agli elettori britannici e dire loro: “Visto, adesso che siamo meno europei possiamo restare in Europa”.
Che altro avrebbe potuto fare, poveretto?
Non poteva certo dire che la distruzione del sistema industriale britannico non è stata colpa dell’Europa. Che se la classe operaia inglese ha perso lavoro e identità e se oggi i suoi figli trovano solamente posti da commessi nei supermercati o da autisti di Uber non è certo per via dell’immigrazione.
La trasformazione della patria della rivoluzione industriale da centro manifatturiero in paese che vive di servizi e terziario, non è stata una scelta presa a Bruxelles. Cameron, successore di Margaret Thatcher, dovrebbe saperlo meglio di altri.
La colpevolizzazione dei poveri e dei disoccupati è stata, negli ultimi anni, il mantra propagandistico del partito conservatore. “Chi vuole, lavora. Se non trovate un lavoro è colpa vostra. Chi vive alle spalle dello stato sociale è un parassita”: queste sono state le parole d’ordine di David Cameron.
La competizione tra i poveri è la quintessenza del capitalismo di rapina, di cui il partito conservatore inglese è una delle massime espressioni mondiali. Divide et impera.
A forza di dividerli, di mettere i poveri in competizione, di spingerli a guardarsi in cagnesco l’un l’altro, non poteva che prodursi un clima generale di risentimento e malcelato odio.
Il problema è che un consenso elettorale che si basa sui capri espiatori è il terreno di coltura ideale dei populismi d’ogni tipo, tanto che il referendum sull’Unione Europea si è di fatto trasformato in un referendum sull’immigrazione. Lo straniero: quale migliore capro espiatorio?
Il problema è che proprio David Cameron salì al potere con la promessa (non mantenuta) di ridurre il numero degli immigrati in Gran Bretagna.
Il problema è che per anni il primo ministro britannico ha battuto il tasto della divisione e della guerra tra poveri pur di garantirsi un miserabile consenso.
Il problema è che oggi che dovrebbe perorare la causa europeista non ha alcuna credibilità come difensore dei valori dell’unità e della solidarietà tra i popoli.
Se la Gran Bretagna rimarrà in Europa non lo dovrà certo ai suoi leader. Lo dovrà semmai alla povera Jo Cox, la parlamentare laburista di seconda fila massacrata da un matto neonazista in un paese dello Yorkshire.
Chi semina odio e divisione, raccoglie odio e divisione. Jo Cox si batteva per l’accoglienza ai rifugiati, e pensando di vivere in un paese civile non avrebbe mai creduto che per questo motivo sarebbe stata assassinata all’uscita da una scuola. Dubito sarebbe felice di sapere che la sua morte ha avuto, nei sondaggi, un effetto favorevole alle sue idee. Io non lo sono.
I toni della campagna elettorale sono stati così violenti, così sopra le righe, così poco britannici che, indipendentemente dal risultato, si lasceranno dietro una scia di risentimento e di rancore. Difficile dire se sarà possibile rimettere insieme i cocci.

sabato 11 giugno 2016

Giugno 2016. Prima settimana

Mark Zuckerberg pensava che gli indiani avessero davvero l’anello al naso. Si sbagliava.
Il Guardian ha recentemente raccontato di come gli indiani abbiano detto di no al patron di Facebook, che voleva regalare loro niente meno che Internet.
Da anni, Zuckerberg cerca di espandere il suo social media nei due più grandi mercati del mondo: la Cina e, appunto, l’India. Con scarsissimo successo, fino a ora.
Per Facebook è un problema. Nei paesi occidentali ha ormai pressoché raggiunto una sorta di limite fisiologico: se tutti gli utenti potenziali già usano Facebook, come fare a trovarne di nuovi?
La Cina ha da tempo eretto una sorta di social-muraglia. Facebook è inaccessibile dal 2009, e lo stesso vale per Twitter. I cinesi (che sono capaci di imitare qualunque cosa) usano soprattutto un loro personale ibrido tra i due, Weibo, che pur essendo formalmente una compagnia privata, addirittura quotata al NASDAQ, deve sottostare ai rigidi controlli degli occhiuti censori di Pechino.
In India, al contrario, chiunque può liberamente accedere ai social media, tanto che gli utenti sono già oltre cento milioni. Il problema, da quelle parti, non è politico ma tecnologico ed economico: centinaia di milioni di potenziali clienti non possono accedere a Facebook semplicemente perché non hanno Internet.
Ecco perché Zuckerberg voleva “regalare” la Rete agli indiani. Il neopresidente Modi era tra i suoi sostenitori, e ne aveva ottenuto in cambio un sostanziale aiuto (in termini di presenza online) nel corso della campagna elettorale di due anni fa. Durante la sua prima visita di stato in America, lo scorso anno, uno dei luoghi in cui Modi andò fu, non a caso, il quartier generale di Facebook a Menlo Park (California).
I problemi tra Facebook e l’opinione pubblica indiana non hanno nulla a che vedere con la politica. L’Internet per tutti di cui Mark Zuckerberg parlava, certamente convinto che un paese povero come l’India non avrebbe mai potuto rifiutare una simile offerta, era in realtà “Facebook-e-solo-Facebook” per tutti. La sua società avrebbe di fatto controllato quali siti sarebbero stato accessibili e quali no.
Facebook sosteneva di farlo per aiutare gli indiani: io vi do la connessione gratis poi, chi vuole accedere alla “vera” Rete non deve fare altro che pagare, come in quasi tutti i paesi del mondo, e sarà libero di navigare come vuole.
Non l’avesse mai detto. L’approccio paternalistico di Facebook ha sollevato un autentico vespaio. Una compagnia straniera che dichiara di volere “donare” qualcosa agli indiani, di fare qualcosa per il loro bene tacendo il proprio personale interesse, scatena nelle loro teste il riflesso condizionato di chi ancora si ricorda di quando gli inglesi “regalarono” loro le ferrovie, la raccolta delle tasse e la “civiltà”.
E dire che Facebook voleva fare le cose in grande. Come scrisse mesi fa il Financial Times, la sua idea era raggiungere gli stati e le zone più isolate dell’India utilizzando dei droni alimentati da batterie solari. Anche Google, che ha progetti non dissimili, voleva donare Internet ai selvaggi. Nel suo caso, però, l’idea era di ricorrere a più tradizionali palloni meteorologici.
Un referendum consultivo online, voluto dall’authority indiana sulle telecomunicazioni, ha visto trionfare gli oppositori al progetto di Facebook, malgrado il consistente investimento pubblicitario della società americana.
Pochi mesi dopo, Zuckerberg si fece fotografare, scrive il Guardian, mentre faceva jogging a Pechino. Adesso vuole provare a collaborare coi cinesi. Non per guadagnarci, è ovvio, ma per “rendere migliore il mondo del ciberspazio”.
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Perché in Germania ce l’hanno così tanto con Mario Draghi? Non passa giorno senza che un politico di quel paese o un rappresentante della banca centrale tedesca non se ne esca con una polemica nei confronti del governatore della BCE.
Una spiegazione prova a darla il Financial Times. Sembra che la politica dei tassi d’interesse negativi che Mario Draghi sta portando avanti stia creando non pochi problemi al sistema bancario e ai risparmiatori tedeschi.
I media di Berlino, affrontando la questione, parlano di un vero e proprio “disastro sociale”. Il fatto è che i tedeschi sono tradizionalmente dei gran risparmiatori. Nel 2015, hanno messo da parte qualcosa come 17 miliardi di euro, depositandoli per lo più in banca o acquistando titoli di stato (i tedeschi sono altrettanto tradizionalmente refrattari alle alchimie della finanza e investono pochissimo in borsa).
Erano abituati a trarne una sorta di reddito supplementare, che in presenza di tassi d’interesse addirittura negativi si è ridotto e non di poco. Oltretutto, il sistema bancario è estremamente parcellizzato. Le cinque maggiori banche tedesche controllano appena il 32 per cento del mercato (in Francia, Svizzera e Olanda, ad esempio, la cifra sale al 70-80%), il che significa che per tenersi stretti i clienti e mantenere le quote di mercato sono costretti a ridurre il personale e a chiudere filiali.
Fin qui il Financial Times. I tassi d’interesse negativi potrebbero anche avere, in teoria, un effetto positivo. Potendosi indebitare a poco, i governi potrebbero investire in opere pubbliche e rilanciare l’occupazione, visto che i privati proprio non ne vogliono sapere, ma la “austera” Merkel da questo orecchio non ci sente (sono anni che Paul Krugman implora i leader europei, e soprattutto la cancelliera tedesca, perché lo facciano).
“Prima pagate i vecchi debiti – insiste la Merkel, per far contento il proprio elettorato – poi potrete farne di nuovi”. Campa cavallo: il risultato è che i paesi indebitati non sono ovviamente in grado né di pagare i vecchi debiti né di rilanciare le proprie economie. Quel che è peggio, non investe neppure la Germania, che pure di debiti non ne ha.
Così, in attesa che politiche sbagliate producano, per chissà quale misteriosa congiunzione astrale, risultati che non stanno nelle loro premesse, l’assenza di una lungimirante leadership europea sta solo facendo aumentare il consenso dei partiti populisti e le spinte centrifugo-isolazioniste.
L’umore generale degli europei non può certo sorprendere. Per gli inglesi la colpa della crisi economica è dell’Europa, per i tedeschi di Mario Draghi, per i greci (e non solo) di Angela Merkel e così via. L’unica politica guida dell’Unione Europea, insomma, sembra quella dello scaricabarile.
Se perfino i leader cosiddetti europeisti, i sostenitori dell’Unione, le si scagliano contro ogni volta che hanno bisogno di un capro espiatorio, come stupirsi della generale, esponenziale crescita dell’antieuropeismo?
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Il presidente di una nota organizzazione sportiva internazionale è finito nel mirino dei media. Si tratta di un’organizzazione con base a Ginevra, e il presidente in questione è stato accusato di avere truccato i risultati della sua elezione, nonché di essere il proprietario segreto di una società, con sede nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche, che incassa i diritti commerciali delle competizioni internazionali. La FIFA? Joseph Blatter? Niente di tutto questo.
Si tratta di Kirsan Ilyumzhinov, che nel 2014 sconfisse l’ex campione del mondo Garry Gasparov nella corsa per la presidenza. La federazione è la FIDA, Fédération Internationale des Échecs (Federazione Internazionale degli Scacchi).
Un bel tipo, questo, Ilyumzhinov. Amico di Vladimir Putin, è uno degli oligarchi russi finiti nella lista nera degli Stati uniti dopo l’annessione della Crimea alla Russia.
Se pensavate che gli scacchi, rispetto al calcio, fossero un’isola felice, beh, è tempo di cominciare a ricredervi.

domenica 5 giugno 2016

Maggio 2016. Quarta settimana

Per vedere il Salvator Mundi di Leonardo Da Vinci feci una fila di sei ore. Presi la prima metro da Brixton alle 5 e 26 del mattino per essere alla National Gallery alle sei. Era inverno e faceva un freddo boia.
Il tedesco di fianco mi spiegò che tutto dipende dai piedi. Bisogna mettere dei fogli di giornale sotto le scarpe, disse, per isolarsi dall’umidità del pavimento. Credo utilizzai l’inserto Moda del Guardian, ma forse mi sbaglio. Di sicuro non ne trassi chissà quale beneficio.
Entrai a mezzogiorno, senza riuscire a capire se fossi più felice per avere finalmente in mano il biglietto della mostra oppure perché al tepore della sala d’ingresso stavo cominciando a scongelarmi.
Era una delle prime occasioni, se non la prima, in cui il Salvator Mundi veniva esposto al pubblico. Opera di straordinaria raffinatezza tecnica e di assoluta corrispondenza tra ciò che Leonardo voleva rappresentare e ciò che effettivamente aveva realizzato, il Cristo nel dipinto vi osserva dal suo iperuranio catto-platonico, più etereo dell’etere medesimo.
Se io fossi Dmitry Rybololvev, l’oligarca russo proprietario del Salvator Mundi, un quadro del genere vorrei sempre averlo in bella vista. Lui invece sapete che ha fatto? Lo ha tenuto per anni in un centro di stoccaggio di Ginevra, un cosiddetto free port, col resto della sua collezione d’opere d’arte dal valore di 2 miliardi di dollari, accanto ai Picasso, Klimt, El Greco, Renoir, Van Gogh, per poi spostarlo, in seguito ad una causa legale, in un altro centro del genere in quel di Cipro.
Pare che questi centri di stoccaggio siano ormai uno dei più grandi musei del mondo. Ce ne sono quattro nella sola Ginevra, più altri variamente sparsi tra i paradisi fiscali del mondo: Singapore, Monaco, Lussemburgo, il Delaware.
Nei magazzini di Ginevra si stima siano ospitati qualcosa come 1 milione e duecentomila opere d’arte, al riparo da occhi indiscreti, dal fisco e, talvolta, dalle forze dell’ordine. Fu proprio in uno di questi centri di Ginevra, due anni fa, che la nostra Polizia di Stato scoprì due rari sarcofagi etruschi e altre 45 casse di beni archeologici rubati, “ancora avvolti – scrive il New York Times – in quotidiani italiani degli anni Settanta”.
Ci sono due ragioni per questo occultamento contro natura di opere fatte per essere guardate: da una parte c’è il disinteresse per l’arte in sé di molti acquirenti, che comprano quadri come fossero lingotti d’oro, ossia per un mero interesse speculativo; dall’altra il desiderio dei grossi mercanti d’arte di controllare l’offerta di opere in vendita per tenere alti i prezzi.
Il Cristo come Salvator Mundi, intanto, benedice il container che lo ospita. Forse appena un po’ stupito che siano passati più di tre giorni da quando vi fu rinchiuso.
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Milioni di disperati transumano da una parte all’altra del globo. Fuggono da guerre, povertà, persecuzioni. E’ sulle prime pagine di tutti i giornali e nei titoli di testa di qualunque notiziario (per tacere dei social media).
Meno nota, ma non meno perniciosa, è la migrazione dei miliardari. Loro, ovviamente, non hanno bisogno di trafficanti di uomini per attraversare mari e frontiere. A volte emigrano solo in spirito e portafoglio, lasciando le proprie spoglie mortali nei paesi natii.
C’è gente miliardaria, al mondo, che pur di risparmiare sulle tasse si sottopone a vere e proprie ordalie. Lessi anni fa sul New Yorker di super-magnate che, per non pagare l’imposta sul reddito a New York, fingeva di essere residente in un altro stato americano, dove le aliquote sono più basse. Per riuscirci, doveva dimostrare di non vivere a New York per più di 180 giorni l’anno. Aveva una segretaria che si occupava solo di questo: tenere il conto dei giorni trascorsi sulle rive dell’Hudson e quelli passati altrove, conservando ogni singola ricevuta dei viaggi aerei, dei taxi, dei biglietti del cinema e delle ricevute dei ristoranti per dimostrare che il tal giorno o il tal altro il suo datore di lavoro non poteva trovarsi a New York.
A volte, se c’era il rischio di sforare, il povero miliardario era costretto a salire di corsa sul suo jet privato per varcare la frontiera prima dello scoccare della mezzanotte. Una sorta di Cenerentola all’incontrario.
La competizione per accaparrarsi i migliori contribuenti s’è fatta ferocissima. Ad accoglierli alle frontiere non trovano né polizia né filo spinato, bensì tappeti rossi tra file plaudenti di consulenti fiscali.
Non si tratta solamente di concorrenza tra nazioni. Perfino i diversi stati degli USA utilizzano gli sconti erariali come esca per attrarre i ricchi.
Oppure sono costretti a pagare il pizzo per non farli scappare. In Connecticut, per esempio, stanno approvando un contributo di 22 milioni di dollari da elargire sotto forma di finto prestito alla Bridgewater Associates, per evitare che emigri altrove.
La Bridgewater non è un nome qualunque: è uno dei più grossi hedge funds del mondo, con un patrimonio gestito di 150 miliardi di dollari. La proposta del governo locale sta sollevando qualche piccola perplessità, com’era inevitabile.
Ma d’altra parte nessuno vuole fare la fine del New Jersey. Di recente, uno dei maggiori contribuenti del piccolo stato americano ha deciso, dopo vent’anni di onorata residenza, di trasferirsi in Florida. Si chiama David Tepper, ed è a sua volta un gestore di hedge fund.
Per avere un’idea del buco lasciato nel bilancio dello Stato bisogna calcolare che Tepper ha guadagnato, tra il 2012 e il 2015, qualcosina come 6 miliardi di dollari. Con un’aliquota fiscale dell’8,97 per cento, è facile capire quanto ciò costerà alle finanze locali.
A forza di concentrare la ricchezza in poche mani, è successo che in alcuni stati americani (California, Maryland, Connecticut, New York e appunto New Jersey), l’uno per cento dei contribuenti paga un terzo delle tasse (parliamo delle imposte personali sul reddito), per quanto le aliquote siano, come abbiamo visto, bassissime. Basta che uno di questi contribuenti se ne vada e sono cavoli amari.
Tutti gli emigranti, poveri o ricchi che siano, si lasciano dietro miserie e rovine. La differenza è che i poveri ne fuggono; i ricchi, fuggendo, le creano.
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Qualcuno aiuti Ramzan Kadyrov. Il leader fantoccio della Cecenia, responsabile di omicidi, torture e sparizioni a migliaia in combutta col suo gran burattinaio Vladimir Putin e ovviamente in nome della guerra santa al terrorismo islamico, ha recentemente pubblicato un disperato appello sulla sua pagina Instagram da un milione e ottocentomila followers.
Il suo gatto del Bengala, una rara e costosissima razza, è sparito da giorni.
“Stiamo cominciando a preoccuparci seriamente” ha scritto Kadyrov sul suo profilo.
Se qualcuno dovesse ritrovare il gatto, per favore, lo contatti. Sperando, sono tempi terribili, che non siano stati quelli dell’Isis a rapirglielo!

martedì 24 maggio 2016

Maggio 2016. Terza settimana

Tempi duri, per i magnati della finanza.
Benché le banche centrali di mezzo mondo stiano letteralmente inondando il sistema finanziario di denaro (quantitative easing, tassi d’interesse addirittura negativi e così via), pare che in pochi abbiano davvero voglia di spendere questo denaro in nuove attività produttive.
Gli investitori hanno ritirato qualcosa come 90 miliardi di dollari dai fondi azionari. Solo gli hedge funds, e solo nel primo quarto di quest’anno, hanno dovuto dire addio a oltre 15 miliardi di dollari che investitori irritati dagli scarsi guadagni e dall’eccessiva esosità delle spese di gestione hanno preferito dirottare altrove (Financial Times del 16 maggio).
I pochi gestori di hedge funds che hanno ottenuto profitti superiori alla media sono i cosiddetti “quants”, quantitative hedge funds: fondi che scelgono in quali compagnie investire i soldi dei propri clienti, e in quali disinvestirli, sulla base di ciò che i computer dicono loro di fare (The Guardian del 15 maggio). Più che il genio o l’intuito dei cosiddetti “padroni dell’universo”, insomma, poté l’algoritmo.
Perfino il settore “fusioni e acquisizioni”, che lo scorso anno s’era rivelato assai redditizio, nel 2016 è crollato. Il 2015 aveva visto questo settore toccare la cifra record di 4700 miliardi di dollari, quest’anno (New York Times dell’11 maggio) ha invece battuto un record in negativo: fusioni e acquisizioni per un valore di 400 miliardi di dollari sono state annullate all’ultimo istante, lasciando col cerino in mano e un gran bel buco nel portafogli chi aveva scommesso sul loro successo.
E’ bastato che l’amministrazione Obama, nel suo ultimo anno di vita, decidesse di prestare un po’ più di attenzione ai rischi crescenti di un’eccessiva concentrazione monopolistica, ed ecco che il Dipartimento della Giustizia s’è visto costretto a bloccare diversi progetti che sembravano ormai in dirittura d’arrivo.
La Halliburton era pronta ad acquisire la Baker Hughes (35 miliardi di dollari era il prezzo dell’accordo), poi il Dipartimento della Giustizia s’è opposto e puff, tutto saltato. Ancora peggio è andata alla fusione in itinere tra i due giganti dell’industria farmaceutica Pfizer e Allergan: un giochino da 152 miliardi di dollari che s’è risolto in un nulla di fatto.
Il forte vento di rivolta che sta ultimamente agitando le grisaglie degli azionisti non può certo destare stupore. Più vedono calare i propri dividenti, più monta la loro rabbia nei confronti dei lauti stipendi che gli amministratori delegati delle società quotate in borsa si auto-elargiscono. Vere e proprie ribellioni hanno di recente colpito i vertici della BP, del gigante minerario Anglo-American, della Renault e, giusto pochi giorni fa, della Deutsche Bank (solo per citare alcuni tra gli esempi più eclatanti).
Un altro celebre obiettivo delle ire funeste degli azionisti è la Goldman Sachs: un terzo tra loro ha votato contro i nuovi emolumenti dei dirigenti. Non stupisce che proprio la Goldman Sachs sia finita nel mirino dell’High Pay Centre, un think-tank americano che si batte contro gli eccessivi emolumenti dei big della finanza e dell’industria (Financial Time dell’8 maggio): nel 98 per cento delle società di cui è azionista negli Stati Uniti, le paghe e i bonus dei vertici hanno ottenuto il suo voto favorevole. Anche nell’empireo dei padroni dell’universo, insomma, vale il detto “una mano lava l’altra”.
La rivolta degli azionista, tuttavia, non sembra avere intenzione di fermarsi. Sarà populismo pure questo?
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I “geni” della finanza, del resto, avevano campato di rendita. Hanno lucrato per anni sulle spalle delle classi lavoratrici, utilizzando il paradigma ideologico “del meno stato più mercato” nato negli anni Ottanta del secolo scorso.
La loro ricchezza aveva poco a che vedere con le capacità imprenditoriali, e molto invece con la quantità di denaro che facevano scivolare nelle tasche dei legislatori di mezzo mondo.
Strizza strizza i redditi dei consumatori, taglia di qui e taglia di là, era solo una questione di tempo prima che l’economia grippasse.
Chi può s’arrangia. In Cina, per esempio, dove il governo ha costretto le banche a prestare soldi a cani e porci pur di risollevare il tasso di crescita, gli investitori fai da te, quelli che investono on-line, non si sa bene perché si sono messi a comprare futures sulle commodity, le merci per così dire grezze (minerali, beni alimentari non lavorati ecc.).
I futures sono contratti a termine: compro oggi e rivendo domani al prezzo che è stato predeterminato al momento dell’acquisto. Se io penso che i prezzi delle arance (per esempio) in futuro cresceranno, compro a un prezzo più basso oggi e rivenderò a uno maggiore l’anno prossimo. E viceversa.
Tra i futures più gettonati, in Cina (New York Times del 1 maggio), ci sono quelli sulle uova, cresciuti di un terzo nello scorso mese di marzo. Gli investitori puntano su un aumento del prezzo delle uova, mentre gli analisti finanziari più avveduti stanno cercando di avvertire gli acquirenti che solo un’epidemia di galline potrà forse consentire loro di vincere la scommessa.
Chiamatela, se volete, economia di “melcato”.
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Se invece preferite investimenti più esotici e bizzarri, il Guardian del 14 maggio suggerisce l’acquisto delle banconote dello Zimbabwe.
Vi ricordate? Era il 2009 e l’inflazione aveva raggiunto cifre astronomiche, tanto che il governo di Harare mise in circolazione banconote del valore di 100 trilioni di dollari dello Zimbabwe (un trilione è un milione di milioni).
Per andare a fare la spesa servivano due borse: una per le merci acquistate, l’altra per trasportare le banconote. Durò poco. Il governo cedette al senso del ridicolo: la moneta ufficiale dello Zimbabwe è stata dichiarata ufficialmente estinta, sostituita dal dollaro americano, dal rand sudafricano e perfino dalla rupia indiana (come si legge su Wikipedia).
John Wolstencroft, un imprenditore neozelandese, per divertimento comprò una gran quantità di quelle bizzarre banconote. Le regalava agli amici o alle persone che incontrava per affari. Gli sembrava, racconta, “un ottimo sistema per rompere il ghiaccio”.
Pagò all’epoca (era il 2010) un dollaro e mezzo per ogni banconota. Se oggi ne volete comprare una, il prezzo su eBay è di 20-25 dollari, con picchi di 40.
Un incremento del 1500 per cento dal 2011 a oggi, al cui confronto il più 5 per cento dell’indice azionario della City di Londra fa una figura decisamente barbina.

mercoledì 11 maggio 2016

Maggio 2016. Seconda settimana

Paese che vai, mazzetta che trovi. In Brasile, di questi tempi, va di moda il “petrolão”: un giro di mazzette (tre miliardi di dollari, secondo alcune stime) che un gruppo di società di costruzioni ha pagato per anni a esponenti di tutti i partiti politici e ai dirigenti della compagnia petrolifera nazionale, la Petrobras, in cambio di contratti per la realizzazione di raffinerie, piattaforme off-shore e così via.

Come in Italia, dove abbiamo avuto calciopoli, parentopoli e tante altre “-opoli” che hanno preso il nome dall’originaria tangentopoli, anche in Brasile il petrolão è stato così chiamato per assonanza con uno scandalo precedente, il mensalão.

Era il 2005, l’epoca del primo mandato di Lula Inácio da Silva. Il presidente-operaio si ritrovò a fare i conti con un parlamento in cui non aveva una maggioranza, composto per giunta da un’infinità di partiti e partitini (per avere un’idea, nel parlamento attuale ce ne sono 28).

Non volendo cedere ministeri o sottoscrivere accordi con gli altri partiti in cambio del sostegno in parlamento, Lula preferì far ricorso a pagamenti versati mensilmente ai singoli parlamentari d’opposizione. Mensalão, letteralmente, significa “assegno mensile”.

Per la cronaca, né il mensalão né il petrolão hanno a che vedere con la messa in stato d’accusa dell’attuale presidentessa Dilma Rousseff. L’accusa a suo carico non è quella di essersi personalmente arricchita, bensì di avere truccato il bilancio pubblico del Paese per nasconderne i debiti.

La stessa cosa che non si può dire dei suoi accusatori, il più feroce dei quali era Eduardo Cunha, presidente della camera bassa del parlamento. La Corte Suprema del Brasile l’ha appena deposto dalla carica. E’ accusato d’avere ricevuto mazzette per la bellezza di 40 milioni di dollari. Lo scorso mese di ottobre si era scoperto che il grande moralizzatore possedeva almeno quattro conti segreti in Svizzera per un totale di 19 milioni di dollari. Una delle società paravento messe in piedi da Cunha aveva un nome perfetto per uno che di mestiere fa il predicatore evangelico alla radio: Jesus.com.

Cunha è stato appena sostituito alla presidenza della camera bassa da un suo alleato, Waldir Maranhão, su cui tuttavia pende l’accusa d’essersi a sua volta intascato una giusta percentuale di petrolão.

Anche il probabile successore di Rousseff, nel caso la presidentessa fosse costretta a dimettersi, ovvero il leader del partito centrista Michel Temer, è stato appena condannato per finanziamento illecito al suo partito. Sotto inchiesta per corruzione sono altresì molti dei suoi più influenti collaboratori.

Toccherà a questo fior fiore di galantuomini decidere se Dilma Rousseff è indegna della presidenza del Brasile.

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Negli Stati uniti, invece, va di moda il “lulu”.

La parola deriva dal francese “lieu” = in luogo di (gli anglofoni, che l’hanno adottata, la pronunciano grosso modo “liu”, con una “i” appena accennata). In inglese slang indica le retribuzioni extra che vanno a braccetto con gli incarichi di sottogoverno.

Uno bravissimo a elargire lulu agli uomini giusti, e a garantirsi così la prestigiosa poltrona su cui sedeva da oltre un decennio, era il democratico Sheldon Silver, presidente dell’assemblea dello stato di New York (l’equivalente dei nostri parlamenti regionali).

Era talmente amato (e temuto) dai suoi colleghi che solo due o tre di loro si erano permessi di votargli contro, l’ultima volta che si era candidato alla presidenza.

Va da sé che aveva i suoi buoni motivi per tenere così tanto a quella carica istituzionale. Lavorava, più o meno segretamente, per uno studio legale di New York, da cui riceveva lauti compensi (si parla di circa tre milioni di dollari). L’onorevole Silver era infatti abilissimo nel procurare clienti allo studio legale in questione. La sua specialità erano i malati di mesotelioma, il tumore alle vie respiratorie provocato dall’esposizione all’amianto. Pare che ogni risarcimento per questo tipo di malattia si traduca, per gli avvocati, in una parcella da un milioncino di dollari.

L’onorevole Silver aveva un metodo infallibile per pescare i suoi lucrativi clienti: un accordo sottobanco con il dottor Robert Taub, che gestisce la clinica della Columbia University specializzata nel mesotelioma. In cambio dei pazienti, il presidente dell’Assemblea concedeva al dottor Taub finanziamenti pubblici per la sua clinica, più alcuni lulu supplementari: un lavoro pubblico per la figlia, contributi pubblici per l’organizzazione di beneficienza della moglie, perfino un encomio dello stato di New York per l’eccellente lavoro dell’esimio dottor Taub.

Il 3 maggio scorso, Sheldon Silver è stato condannato a dodici anni di reclusione. Se l’appello che i suoi legali presenteranno non sarà accolto, soggiornerà in galera dal primo luglio prossimo.

Non che se la passi meglio, per rimanere a New York, l’ex presidente del locale senato. Si tratta stavolta di un repubblicano, Dean Skelos, parlamentare dello Stato dal 1985. Nel suo caso vale il detto: “every scarrafone is his own mother’s child” (libera traduzione dal napoletano).

Il senatore Skelos porta la croce di un figlio tanto scavezzacollo quanto nullafacente. Per dargli una “manuzza” d’aiuto, l'allora presidente del Senato si era premurato di garantire contratti pubblici e i relativi lulu ad alcune aziende, in cambio dell’assunzione del figlio Adam. Il quale, per giunta, intascava il lulu ma andava a lavorare solo quando ne aveva voglia.

Entrambi sono stati condannati lo scorso mese di dicembre. L’accusa ha chiesto una pena detentiva tra i dodici e i quindici anni. Il giudice deciderà a breve sull’entità della carcerazione.

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Le condanne di Silver e Skelos non devono trarre in inganno. Sono pochissimi i criminali dal colletto bianco che finiscono in galera negli Stati uniti. I pochi che vengono presi con le mani nel sacco, di solito patteggiano pene pecuniarie ed evitano il processo.

Chi non ha di questi problemi è Ferdinand Marcos jr. detto “Bongbong”. Figlio di Ferdinand Senior e Imelda Marcos, ha appena perso le elezioni alla vice-presidenza delle Filippine per appena 200 mila voti su un totale di 40 milioni.

Nei ventuno anni in cui governò il popoloso arcipelago del Sud-Est asiatico, suo padre riuscì a rubare la bellezza di dieci miliardi di dollari (avete letto bene: miliardi). I successivi governi delle Filippine sono stati in grado di recuperare appena un terzo del bottino. Il resto è scomparso chissà dove.

Marcos s’impossessò, tramite prestanome, di tutte le più importanti compagnie del Paese. Per costringere il proprietario della compagnia elettrica nazionale a cedergliela, s’inventò che il di lui figlio era implicato in un complotto per assassinarlo. Davanti alla prospettiva che il figlio fosse condannato a morte, Eugenio Lopez vendette la compagnia per 220 dollari (il valore reale era di 400 milioni).

Mise altresì le mani sull’intera filiera per la produzione e la vendita dello zucchero, che all’epoca equivaleva al 27 per cento dell’intero export filippino. Per incrementarne i profitti, decretò che l’industria dello zucchero fosse esentata dall’obbligo di pagare il salario minimo ai propri dipendenti, che finirono così per dover campare con meno di un dollaro al giorno.

Nel frattempo, 34 mila sindacalisti e attivisti politici venivano torturati nelle carceri del Paese e i cadaveri di 3240 uomini e donne furono gettati per strada dai suoi squadroni della morte (di altri 398 non si trovarono neppure i corpi).

Non stupisce che i Marcos furono in grado di aprire un’infinità di conti in banca in decine di paesi del mondo, di comprarsi quattro interi grattacieli a Manhattan e di versare sostanziosi contributi per le campagne elettorali di Jimmy Carter e Ronald Reagan (Ferdinand Marcos era un campione dell’Occidente anti-comunista). Nonché di mettere su una prestigiosa collezione di 304 capolavori dell’arte, inclusi un Michelangelo, un Goya e un paio di Monet.

I Marcos fuggirono dal paese nel 1986. Ferdinand morì tre anni dopo, Imelda è ancora viva e vegeta. Tornò a casa nel 1992, e alla fine degli anni ’90 fu perfino eletta in parlamento. I membri della Commissione Presidenziale sul Buon Governo, che Cory Aquino costituì col suo primo atto da presidentessa delle Filippine e che da vent’anni si occupa, tra mille difficoltà, di rintracciare i soldi dei Marcos, usano il termine “imeldific” per definire una patologica avidità.

Oggi il figlio “Bongbong” è stato votato da venti milioni di suoi smemorati concittadini. La metà di tutti quelli che sono andati alle urne.

Il crimine, a volte, paga perfino con gli interessi.

LE FONTI. Sul Brasile: London Review of Books, New York Times, Guardian. Sui lulu: The New Yorker, New York Times. Sulle Filippine: The Guardian, Financial Times, New York Times

martedì 10 maggio 2016

Maggio 2016. Prima settimana

Yukako Fukushima è una chirurga estetica di Osaka. Lavora presso la clinica Kawamura Gishi, nel pieno centro della seconda città giapponese per numero d’abitanti. E’ specializzata nella fabbricazione e nell’impianto di dita artificiali. Combinando venti diversi colori, è in grado di ottenere oltre mille tonalità di rosa. Il risultato è che le protesi sono assolutamente identiche alle dita originali.

I suoi clienti sono soprattutto ex-membri della yakuza, la potentissima mafia nipponica. Il taglio della prima falange del mignolo, in giapponese, si chiama yubitsume (letteralmente, accorciamento del dito). E’ una punizione rituale che i trasgressori alle regole dell’organizzazione devono auto-infliggersi.

La dottoressa Fukushima lavora in collaborazione con la polizia. Le sue protesi servono ai membri della yakuza che vogliono rifarsi una vita e, per riuscirci, devono nascondere quel vecchio, riconoscibilissimo marchio d’appartenenza. Negli ultimi anni è stata oberata di lavoro.

Il suo successo professionale è un segno della fase di decadenza che la mafia giapponese sta attraversando. Aveva 80 mila membri nel 2009, ridottisi oggi a 53 mila.

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Secondo uno studio dell’Ufficio delle statistiche sul lavoro statunitense (Bureau of Labor Statistics), gli utenti americani di Facebook trascorrono mediamente cinquanta minuti al giorno sui social media. Solo la Tv batte Facebook (2,8 ore al giorno). La lettura si ferma a 19 minuti, Youtube a 17 (Twitter a un solo, miserabile minuto).

Ciò spiega il successo economico della società di Mark Zuckerberg. Più tempo un utente passa su Facebook, più il gestore è in grado di tracciarne le preferenze e di personalizzare le inserzioni sulla sua pagina. Una manna per i pubblicitari, che infatti stanno dirottando i loro investimenti dalla stampa e dalla TV tradizionali (troppo generaliste) in direzione di Facebook.

Il trend è in crescita. Cinquanta minuti al giorno significa che, nel corso di un mese, un utente americano medio trascorre un giorno intero a “scrollare” Facebook. Dodici giorni all’anno. Che diventano tuttavia molti di più nella fascia d’età tra i 18 e i 34 anni.

Senza ovviamente contare che al totale delle 24 ore giornaliere andrebbero sottratte quelle dedicate al sonno e al lavoro. Fatelo, e l’incidenza di Facebook sul nostro tempo libero finirà con l’assumere dimensioni inquietanti.

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Gli elettori di Donald Trump sono in prevalenza maschi, bianchi, diplomati e con un reddito inferiore ai 50 mila dollari all’anno. Curiosamente ma non troppo, la stessa fascia di reddito dei sostenitori di Bernie Sanders, il rivale di sinistra di Hillary Clinton.

Trattasi di gruppi sociali che un tempo sarebbero stati definiti “classe media” (o classe lavoratrice, nella versione americana. I veri poveri, negli Stati uniti, dove occorre registrarsi alle liste elettorali per votare, fanno parte della fascia di reddito in questione ma sono di fatto esclusi dal computo dell’elettorato attivo).

Il sistema elettorale americano è stato modellato sulla classe media, e lo stesso vale per le strategie politico-elettorali dei Repubblicani e dei Democratici (definiti, un tempo, partiti pigliatutto). Quello che sta accadendo negli Stati uniti è solo l’antipasto di una crisi della classe media, devastata dalle disuguaglianze sociali, che sta manifestandosi in tutta la sua gravità nella quasi totalità dei paesi occidentali.

L’élite del partito democratico, rappresentata da Hillary Clinton, sopravvive ancora grazie all’apporto delle minoranze etniche; quella del partito repubblicano è stata letteralmente spazzata via dal ciclone Donald Trump. Il mondo non sarà mai più come era.

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La cosa più divertente di un’eventuale vittoria di Donald Trump è che toccherebbe proprio a lui, al candidato che ha basato gran parte del suo successo sull’ostilità nei confronti degli immigrati, sul voler costruire muri e su tutto il resto della paccottiglia populista, ad aprire le porte della Casa bianca alla prima first lady non americana.

Sua moglie si chiama Melania Knauss, all’anagrafe Knavs (cambiò il suo cognome quando divenne una top-model). E’ nata a Novo Mesto nel 1970, all'epoca in cui la Slovenia era ancora soltanto una regione della ex-Jugoslavia. E’ cittadina americana dal 2001, dopo il matrimonio con Trump.

La cui prima moglie, tra parentesi, era un’altra modella nata nell’ex Cecoslovacchia. L’amore non conosce limiti né, a quanto pare, frontiere.

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Il Lussemburgo è un piccolo paese di poco più di 500 mila abitanti, incastonato tra la Francia, il Belgio e la Germania.

E’ un noto paradiso fiscale, circostanza che misteriosamente non gli impedisce di esprimere un presidente della Commissione europea che per giunta si permette, senza il minimo senso del ridicolo, di dare lezioni di responsabilità fiscale agli altri paesi dell’Unione.

Eppure, nel giro di cinque anni, questo microscopico staterello potrebbe diventare una delle potenze minerarie più importanti del mondo. A quanto pare, il Gran Ducato ha un ente spaziale che ha appena sottoscritto due accordi con altrettante società aerospaziali: la californiana Deep Space Industries e la Planetary Resources (che annovera tra i soci Larry Page e Eric Schmidt di Google e il fondatore della Virgin, Richard Branson).

L'obiettivo è quello di lanciare entro il 2020 la prima missione mineraria nello spazio profondo, allo scopo di prelevare minerari rari e preziosi da asteroidi e quant’altro per mezzo di navicelle spaziali prive d’equipaggio.

LE FONTI. Sul Giappone: The Guardian. Su Facebook: The New York Times. Su Donald Trump: The New York Times, The New Yorker. Sul Lussemburgo: Financial Times